Schiavi e Liberti - Hispellum 2017 Programma

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Curiosità
SCHIAVI E LIBERTI
Nel mondo romano lo status giuridico di servus, pur nella sua univocità, contempla una serie di condizioni individuali e di gruppo assai eterogenee, legate alle mansioni che gli schiavi erano tenuti ad espletare. Da un punto di vista squisitamente giurisprudenziale, uno schiavo non è altro che un instrumentum vocale, come ebbe a sottolineare Catone il censore: poco più di un oggetto parlante, senza diritti legati alla cittadinanza, incapace di possedere beni (ad eccezione del peculium servile, amministrato però dal suo padrone), e ovviamente sottomesso in tutto e per tutto all’autorità del paterfamilias, che poteva disporne a piacimento.
Nel corso della Repubblica, il diritto romano pose dei limiti agli abusi che i padroni potevano compiere nei confronti degli schiavi (uccisioni e vendite arbitrarie, ad esempio), complice una progressiva “umanizzazione” del pensiero che finì per accordare ai servi un’anima e un po’ di umana solidarietà; tuttavia l’istituzione della schiavitù non fu mai formalmente abolita. Le guerre furono la fonte principale dell’immissione sul mercato degli schiavi (vernae erano invece i servi nati in casa) a partire soprattutto dalla fine del III sec. a. C., nell’ambito dell’incipiente imperialismo romano su scala mediterranea. Questa massiccia importazione determinò anche un radicale cambiamento nei meccanismi di produzione legati al commercio e all’agricoltura: si impose, ad esempio, la villa servile, che fondava la sua attività sullo sfruttamento crudele e senza possibilità di scampo della manodopera di schiavi, costretta a vivere e morire nei campi. Altra era invece la condizione degli schiavi cittadini, la cosiddetta familia urbana, le cui possibilità di riscatto erano assai più elevate a causa degli impieghi sicuramente assai meno usuranti a cui erano destinati (dalle mansioni di pulizia domestica all’insegnamento nelle domus e così via) e quindi ai rapporti più diretti e confidenziali con il proprio padrone. Quest’ultimo poteva pertanto liberare i propri servi attraverso la pratica della manumissio: attraverso un processo fittizio davanti al pretore urbano, il paterfamilias rinunciava al possesso (manus) dello schiavo, che diveniva pertanto libertus del suo patronus, assumendo obblighi legati alla clientela e, cosa più importante, acquisiva la cittadinanza romana.
Un neo-liberto non poteva assumere incarichi politici (tuttavia troviamo schiavi e liberti direttamente coinvolti in mansioni religiose come magistri e ministri di vari culti), ma tale divieto decadeva nel corso della seconda e terza generazione: i suoi figli e nipoti, laddove le condizioni lo avessero consentito, non erano più distinguibili da qualsiasi cittadino romano senza alcuna “macchia” servile nel proprio albero genealogico. I liberti imperiali, soprattutto sotto il principato di Claudio, prima, e Nerone poi (ne ricordiamo soltanto due: Pallante e Narciso), esercitarono con enorme fortuna attività commerciali e amministrative, come del resto numerosi liberti dell’epoca, a volte addirittura insigniti dell’anello d’oro dei cavalieri: come testimoniato dal Trimalcione del Satyricon di Petronio, l’intraprendenza e la fortuna di questi parvenu era considerevole. Costoro non costituirono mai, tuttavia, una vera e propria classe sociale: in virtù del principio di osmosi della società romana, la condizione libertina non durava più di una generazione.
(Andrea Cannucciari)
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