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Brevi note sulla cucina romana

Ricostruire il passato è sempre difficile. Noi archeologi riusciamo a farlo attraverso la cultura materiale collegandola alla storia e alla letteratura. Nel caso del cibo la situazione si fa più complicata. Abbiamo  solo un testo , il famoso ricettario di Apicio, qualche ricetta estrapolata da trattati sull’agricoltura di Columella e Catone e poco altro. La fatica è quella di provare ricette in cui nel 99% dei casi non sono presenti le quantità degli ingredienti e, in molti casi, gli stessi ingredienti sono scomparsi. Infatti gran parte del condimento avveniva grazie alle spezie e alle essenze naturali: qualcuna di queste non esiste più. E poi chi mangerebbe ghiri e gru oggi?

Nel provare si butta via molto e si deve mediare tra l’intransigenza dell’archeologo-storico e quella dello chef. Al pubblico deve essere spiegato anche quello che… non c’è, e come è stato sostituito. Ad esempio è follia pensare di fare il famoso garum esattamente come lo facevano loro.. la cosa migliore è sostituirlo con la colatura di alici di Cedara…dicendolo!

Raccontare una cucina leggendaria in poche righe non sarà certo cosa semplice. Ci proveremo insieme, magari gustando i piatti preparati per la serata!

Innanzitutto sfatiamo la leggenda che i Romani fossero tutti dei gran mangioni: la cucina di cui possiamo parlare è solamente quella dei ricchi perché quella dei poveri … non ci ha lasciato tracce. Parafrasando Rabelais, possiamo dire che i poveri mangiavano quando potevano, mentre i ricchi quando ne avevano voglia! E poi la cucina della prima Roma era assai diversa dalle cene raccontate dagli autori latini: pur sempre basata sui tre elementi principali, il pane, l’olio e il vino, inizialmente produceva solo focacce non lievitate, e la puls, una zuppa composta da un cereale facilmente coltivabile, il farro, e leguminose come le fave o i piselli ai quali si aggiungeva un po’ di carne, quando c’era.

La cucina romana risponde innanzitutto a una necessità… tramutata in virtù! La carne infatti, cotta più volte per toglierne l’affumicatura o la salatura necessarie per la conservazione, perdeva sapore: quindi bisognava recuperare grazie all’uso delle salse e delle spezie. Tra queste primeggiava il pepe, che proveniva dall’India e costava un occhio della tasta. Tra le salse il famoso garum. Questo si faceva facendo imputridire del pesce azzurro in contenitori con sale ed erbe. La prima colatura che ne scaturiva era quello più pregiato. Doveva essere qualcosa tra la colatura d’alici e la salsa di soia.

Era quindi perfetta la pietanza che tenesse in equilibrio tutti i sapori: il sapido, il dolce, l’agro, l’acido. Infatti bastava spostare il cibo da una parte all’altra della bocca per gustarne tutte le sfumature. Provate anche voi.

I Romani avevano tre pasti principali, come noi: la colazione, chiamata ientaculum, il prandium e la cena.

A colazione c’era chi si abbuffava, magari con gli avanzi della cena, e chi invece prendeva un semplice bicchiere d’acqua, come la ragazza di Catullo, il celebre poeta d’amore che la prende in giro proprio su questo. A pranzo si consumava uno spuntino veloce, comprandolo magari da un venditore ambulante o in una locanda.

Ma è con la cena, che iniziava tra le 15 e le 16 a seconda della stagione, che si assisteva al trionfo del palato e dello spettacolo. Nelle più ricche convivevano abbondanza, qualità e scenografia nella presentazione dei cibi.

Innanzitutto alla cena era riservato il triclinium, una grande stanza che conteneva i letti triclini ari. I letti erano di solito tre con la centro la tavola chiamata…mensa. Nei film vedete distesa una persona per letto, ma è un errore. Ogni letto conteneva ben tre persone e il padrone di casa li disponeva secondo la loro importanza stando ben attento che lui potesse parlare con la più influente. Le cene erano infatti anche modi per ingraziarsi il politico di turno, fare gruppo con il proprio partito, o semplicemente ostentare la propria ricchezza..

Il cibo era cucinato intero, e veniva poi spezzettato davanti ai commensali da appositi camerieri che facevano di questa azione una vera e propria danza scenografica. Si mangiava con le mani: ecco quindi la necessità di lavarsi spesso in appositi contenitori contenenti acqua profumata. I commensali potevano usare dei piccoli cucchiai, degli stuzzicadenti e dei coltelli. Le forchette non esistevano ancora, mentre un tovagliolo serviva anche a portare via gli avanzi…

La cena, costituita da almeno tre portate, iniziava con la gustatio, un antipasto composto da cibi appetitosi e stimolanti, accompagnati da salse, in cui il piatto rituale era l’uovo. Infatti per racchiudere in un’unica frase la cena, i Romani dicevano ab ovo usque ad mala, dall’uovo alle mele, ossia la frutta.

Dopo la gustatio il livello via via si alzava fino al piatto forte: qui spesso veniva cucinato un animale intero, ma al cui interno potevano essere ospitati altri succulenti manicaretti che, come per magia, apparivano dalle mani sapienti dei servitori intenti a tagliare la carne. Poi era la volta del dessert e della frutta…

Ma non finiva lì. La cena non era tale senza la commissatio, quando le donne abbandonavano la mensa e gli uomini eleggevano un    magister bibendi: questo decideva le proporzioni del mix tra acqua e vino e dava il ritmo ai brindisi..magari tanti quanti le lettere del nome del padrone di casa.

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